Se Oscar Wilde avesse potuto formare una band negli anni 80, quella band sarebbero stati gli Smiths.

Durante il governo Thatcher, l’operaia Manchester attraversò una profonda crisi economico-sociale. Il grande fermento artistico nato con il punk però fu un’eclatante reazione alla politica della lady di ferro. Già dalla fine degli anni 70, Manchester aveva partorito la Factory Records (l’etichetta indipendente fondata da Tony Wilson nel ‘78) e molti gruppi innovativi (ricordiamo Joy Division, Fall e Buzzcocks). Il pop al contrario era in una fase di declino edulcorato (“Wake me up before you go-go” degli Wham è un ottimo esempio di pop in declino edulcorato) ma fu riportato in vita proprio lì, a Manchester. Nel 1982 nasceva un gruppo che avrebbe schiaffeggiato con immensa eleganza la Thatcher e le sue stronzate ammazza-creatività, sovvertendo la svilente concezione del pop e regalando ai giovani una possibilità di fuga e un’overdose di autocoscienza.

Nell’84 esce “the Smiths” e Still ill è la canzone manifesto della patologia che sarà alla base della loro carriera e dell’arte poetica di Morrissey. La sua voce morbida e malinconica volteggia sulle chitarre limpide di Marr, che disegnano l’ambiente claustrofobico in cui avviene l’autoflagellazione morrisseyana, in un canto di quieta sofferenza. E’ facile capire perchè gli Smiths sconvolsero (e sconvolgono) i giovani: Morrissey raccontava il suo dolore esistenziale con l’ironia e l’estetismo di Oscar Wilde, suo ispiratore. Un dolore personale che lui seppe rendere universale. Oltre ad essere qualcosa di mai sentito prima, erano anche qualcosa di mai visto: Morrissey era l’incarnazione dei suoi testi, una creatura esangue, bellissima e sessualmente ambigua, avvolta in indumenti enormi e collanine di plastica e armata di un mazzo di fiori che roteava in una danza ironica e sconvolta.

Definire “The Smiths” un disco pop è riduttivo: la frenesia ritmica di alcuni pezzi (“Miserable lie”, “What difference does it make?”) risente ancora della formazione punk del gruppo. Per non parlare dei contenuti letterari. Uno dei grandi meriti degli Smiths è proprio l’aver portato contenuti alti in musica fondamentalmente accessibile (operazione che misero in pratica anche i Cure in un modo molto meno evidente e, devo ammettere, meno riuscito).

“Meat is murder” esce l’anno dopo. E’ un disco più maturo, la Rough Trade (etichetta già di “The Smiths”) probabilmente ci investe un paio di sterline in più e il suono è più pulito e curato. L’anima però è sempre la stessa, i testi di Morrissey raggiungono nuovi picchi di poesia e introspezione e la ricerca sonora si sposta leggermente su un’inquietudine più marcata e tormentata.

“The Queen is Dead” (sempre Rough Trade Records, 1986) è il loro capolavoro. Le dieci tracce sono un’antologia della loro carriera: dalla furia punk della title track all’ironia spietata di “Frankly Mr. Shankly”, dalla contenuta disperazione di “I know it’s over” alla ridicolizzante critica sociale di “Bigmouth strikes again”, dal dramma esistenziale di “The Boy with the thorn in his side” (probabilmente dedicata a Ben Watt degli “Everything but the girl” e alla sua spina nel fianco: Tracey Thorn) allo sturm und drang sedato di “There is a light that never goes out”. La scrittura di Morrissey raggiunge nuovi livelli di perfezione, sempre dominata dal freddo distacco Wildiano, che rende la consapevolezza del proprio male di vivere ancora più accentuata e irreversibile e a cui contrappone come soluzione un sorriso malinconico. L’album è anche il vertice creativo di Marr. Riuscendo ad amalgamare il suono metafisico delle chitarre di Verlaine (Television) ai flebili arpeggi delle ballate di Nick Drake, raggiunge la perfetta fusione nella gelida atmosfera dei Joy Division (Summer).

“Strangeways, here we come” esce alla fine dell’87. E’ fedele agli album precedenti, ma se fino a “The Queen is dead” c’era stata una progressione di intensità, con “Strangeways” gli Smiths abbassano il tono e perdono un po’ della loro carica. Lo sfinimento della band si riflette nel lamento straziato di “Last night I dreamt that somebody loved me” e in “Death of a disco dancer” in cui la chitarra di Marr diventa uno stridore anemico. Il loro rifiuto di essere smerciati come un prodotto da supermercato è raccontato in “Paint a vulgar picture” (sferzante critica alle major).

Abbandonano la scena prima di poter sfornare qualcosa che non li rappresenta più (anche se Morrissey andrà avanti con una carriera solista fatta di reminescenze smithsiane e seguita da Stephen Street, stesso produttore della formazione al completo) e lasciano al mondo della musica un’anima iper-sensibile e agrodolce senza precedenti.

G. P. A. M.

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