Dalla sua definizione e affermazione negli anni ’50 il rock ha accompagnato la società occidentale contribuendo a definire stati d’animo universali. Parlando di arte più in generale è opportuno riflettere su come essa abbia continuato a oscillare fra il concetto di mezzo (attraverso cui esprimere le emozioni) e fine (fine a sè stessa). Arte come mezzo presuppone un contenuto, arte come fine presuppone una forma.

Nel rock la prima distinzione fra musicisti indipendenti e non riguarda sia la forma (suoni grezzi i primi, suoni raffinati i secondi) sia il contenuto (solitamente presente nei primi, assente nei secondi). Non c’è molto da dire sulla forma: la perfezione formale è una chimera inseguita sia da grandi esteti (Brian Wilson, i Beatles, Phil Spector) che da sostanziali incompetenti che sono stati dimenticati. Ad ogni modo la perfezione formale ha sempre  presupposto tecnologie e mezzi economici. Au contraire, il contenuto non dipende da tecnologie e mezzi economici, ma dalla sensibilità dei musicisti. Una volta tracciato il formato (che tuttavia molti non interessati al profitto hanno stravolto) il contenuto conquistò il ruolo di protagonista concettuale come il richiamo generazionale di Chuck Berry, la rivoluzione metafisica dei Doors, l’esistenzialismo dei Velvet Underground, le predicazioni di Dylan. E ancora il nichilismo dei punk, l’alienazione industriale della new wave, l’intimismo degli Smiths. La forma tuttavia continuò ad essere la direzione fondamentale delle major e dei musicisti di successo, la maggior parte dei quali sono considerati (alcuni a ragione, molti altri a torto) fra i più importanti della storia del rock, grazie alle vendite record e alla loro sensazionale popolarità fra le masse. (“Le classifiche come criterio di giudizio: Billboard“)

Ogni epoca ha i propri musicisti di successo, che compiono i loro percorsi formali; gli ultimi 15 anni hanno visto i Radiohead come protagonisti. La band inglese gode di notorietà e stima, mettendo d’accordo pubblico e critica: i Radiohead risultano il gruppo più ascoltato fra gli utenti del social network Last.fm (più di Beatles e Lady Gaga) e le riviste di settore abbondano di articoli che elogiano la squisitezza delle loro produzioni, abbandonandosi in divagazioni sull’alienazione, uno dei temi più esplorati non solo nel rock ma nell’arte in generale.

Per quanto ne dicano, i Radiohead sono essenzialmente un gruppo sopravvalutato: i loro artifici di produzione snaturano l’essenza del rock e vanno a colmare il vuoto causato dall’assenza di contenuti. In termini strettamente musicali e formali sono molto meno innovativi di quanto non venga detto.

La band nasce nel 1985 e dopo la gavetta ottiene un contratto con la EMI che decide anche di cambiarne il nome. Radiohead fu infatti suggerito dall’etichetta basandosi su una traccia dei Talking Heads. Nel 1993 viene pubblicato Pablo Honey, il primo album, seguito, nel 1995, da The Bends. Questi due album non sono altro che una raccolta di stereotipi brit-pop che fanno sorridere i fan degli Smiths; due album di qualità ma che non dicono nulla di nuovo: i Radiohead si avventurano nella poetica di Morrissey senza farla propria e rileggendola con un che di spiazzante infantilismo;  due album prodotti fondamentalmente per vendere e permettere alla band di entrare a far parte del fenomeno discografico di quegli anni, capeggiato da Blur e Oasis. Oltre la raffinatezza di arrangiamenti e sonorità non c’è molto da dire. Sfruttando i produttori di Pixies e Dinosaur Jr per il primo album e il produttore degli Stone Roses per il secondo, ottennero quel sound “alternativo” che dopo l’esplosione di Nevermind dei Nirvana sembrava l’unico modo per ottenere successo. Si potrebbe addirittura insinuare che la scelta di John Leckie (produttore degli Stone Roses) come produttore fosse stata dettata dalla necessità di ottenere successo nel Regno Unito. Missione compiuta.

Con Ok Computer (1997) i Radiohead raggiungono il vertice della loro carriera. L’album è un successo mondiale e la stampa li saluta come uno dei gruppi più importanti della storia. Il peso di queste recensioni sulla seconda parte della carriera della band è in un certo senso maggiore dell’importanza degli Smiths per quanto riguarda la prima. Ok Computer è uno spartiacque: prima di questo disco i Radiohead erano un normale gruppo brit-pop oscurato dall’ombra di Oasis e Blur; senza i Radiohead avrebbero probabilmente fatto la fine di Pulp e Suede (che nulla hanno da invidiare ai Radiohead, anzi) ovvero l’anticamera del dimenticatoio; dopo Ok Computer i membri della band si calano nel ruolo di intellettuali, il pubblico li considera geniali ed innovativi e il loro stile muta profondamente.

Non si capisce bene cosa abbia portato al loro cambio stilistico, semplicemente in alcune interviste i membri del gruppo parlano di voler far qualcosa di nuovo e di diverso. Possiamo credere ai Radiohead o possiamo pensare al contesto in cui la scelta di “fare qualcosa di diverso” è stata maturata: nel 1995 la stampa inglese rievoca la rivalità fra Beatles e Rolling Stones iniziando a parlare di “guerra del brit-pop”  fra Oasis e Blur, semplicemente per farne discutere e pubblicizzarli; l’uscita quasi in contemporanea di What’s the Story (Morning Glory) dei primi e The Great Escape dei secondi è lo scontro finale. Il risultato di questa irreale sfida (in realtà gli Oasis ci credevano davvero, poverini) è ovviamente misurato dalle riviste di settore in termini di vendite e non in termini qualitativi; fatto sta che gli Oasis sbaragliano la concorrenza (con un album che è praticamente uguale dall’inizio alla fine) e vincono il trofeo di sovrani del brit-pop. La carriera degli Oasis finisce in quell’istante, l’album successivo non ottiene il successo sperato e le cose si metteranno sempre peggio, dicono quel poco che avevano da dire e decidono di non abbandonare mai il glorioso 1995. I Blur invece, migliori in quasi tutto, optano per un drastico cambio di direzione, scappando da quel genere che le major e le riviste avevano ormai reso una pagliacciata. Probabilmente i Blur ci avevano pensato prima della pubblicazione di The Great Escape: il titolo parla chiaro, Charmless Man parla chiaro e sono tanti gli indizi. Purtroppo anche i Blur finiscono nel ’95, ma non per demeriti musicali: droga e alcohol sfaldano l’alchimia del gruppo tenuto insieme dal solo Damon Albarn. La decisione dei Blur di abbandonare la scena brit-pop spiega la “coraggiosa” scelta dei Radiohead di cambiare direzione, il lento e inesorabile declino degli Oasis la giustifica.

E’ inutile e fuori luogo che Yorke e compagni si sprechino in discorsi sull’alienazione moderna (una sorta di concezione alla Devo, che sono venuti 20 anni prima, filtrata dalla malinconia degli onnipresenti Smiths, che sono venuti 15 anni prima); Ok Computer non aggiunge nulla a quel grande discorso che è il rock, non ne rivoluziona la comunicazione. Ok Computer rinnova le tecniche di produzione musicale, così come Abbey Road (Beatles), Pet Sounds (Beach Boys),  The Dark Side of the Moon (Pink Floyd) e Thriller (Michael Jackson) hanno fatto in passato. L’album è stato più o meno autoprodotto, e questo è senz’altro un merito. I Radiohead e i loro tecnici dimostrano di possedere un orecchio eccellente (come Brian Wilson dei Beach Boys all’incirca);  peccato che il rock non si tratti di questo.

Come anticipato, Ok Computer cala i Radiohead nel ruolo di grandi innovatori (le grandi innovazioni non le ho ancora identificate) e forti del loro successo si danno alla musica sperimentale, o meglio, dal pop passano al pop sperimentale, uno stile di musica melodica e per le masse spacciato per alto e intellettuale. Il gruppo non si ferma a Karma Police (una delle loro canzoni più di successo) ma decidono di continuare a rinnovare; per fare questo guardano indietro di trent’anni, raccogliendo spunti dal rock tedesco degli anni ’70, dal progressive e da Miles Davis. Esce prima Kid A (sperimentazioni affiancate a canzoni pop pure per non suicidarsi commercialmente) e poi Amnesiac (l’esperimento di Kid A è andato bene, i Radiohead fanno un album gemello, questa volta interamente “experimental pop”).

Questi due album sono quanto di più artificiale e costruito il rock abbia mai visto. I Radiohead vanno ben oltre i pomposi archi degli ultimi Beatles (Let it be, prodotto da Phil Spector). Il risultato è un suono completamente elettronico, tutto è filtrato dai computer (persino la voce), il contenuto conta sempre meno (non si può neanche più parlare di alienazione moderna) a vantaggio di una forma tradizionalissima ma semplicemente super elettronica. I Radiohead guardano di qua e di là in cerca di spunti avanguardistici e alternativi. Arrivano a plagiare gruppi underground americani che avevano fatto le stesse cose con più sentimento e meno mezzi tecnologici (confrontate “The National Anthem” con “Good” dei Morphine una band di Boston attiva dai primi anni ’90).

Dopo Amnesiac anche i Radiohead si fermano e stazionano. Pubblicano album ogni tanto, si guadagnano il rispetto dei fan attraverso il web (album scaricabili gratis). Quando uscì In Rainbows, nel 2007, i Radiohead facevano parlare di sè più per il modo in cui facevano le cose (l’album lo paghi quanto vuoi, su internet) che per il risultato musicale. Anni di pubblicità promossa dalla EMI assicurò il successo commerciale di un album non solo povero di contenuti, ma anche noioso e ripetitivo.

Le teorie sulla grande importanza dei Radiohead e sulle loro strabilianti rivoluzioni non hanno nulla di fondato. Yorke e colleghi non possono ispirare nessun gruppo rock, semplicemente per il fatto che non sono imitabili da nessuno per via della loro artificiosità. Il loro ruolo e i loro meriti verranno fortemente ridimensionati nel tempo. Oggi sono pochi i gruppi ispirati dai Radiohead, ma ciò che più dovrebbe far riflettere è la pessima qualità della musica che questi gruppi suonano: Coldplay e Muse. A contrario dei Radiohead queste due band non meritano neppure un’analisi.L’artificiosità dei Radiohead è stata più dannosa che altro. I loro meriti vanno fortemente ridimensionati, soprattutto in virtù di cosa usciva nell’underground nel 1997 (l’anno di Ok Computer), di cosa c’è stato sia in Inghilterra che negli Usa negli anni 2000 e di cosa, anche per colpa dei Radiohead, ci siamo persi in questi ultimi anni.

A.M.


Faust, Miss Fortune, Faust (Polydor, 1971)

Are we supposed to be or not to be?
said the angel to the Queen
I lift up my skirt and Voltaire turns
as he speaks, his mouth full of garlic
white, yes, white
misfortune of us two
he told you to be free
and you obeyed
we have to decide which is important
a war we never see
or a street so black babies die?
a system and a theory
or our wish to be free?
to organise and analyse
and at the end realise
that nobody knows
if it really happened

Jeffrey Lee Pierce fu il leader della punk band Gun Club, fra le più importanti della scena di Los Angeles dei primi anni ’80. Nel 1981 esce “Fire of Love”, capolavoro e manifesto della band che avrebbe riletto il blues tradizionale in chiave punk: velocità esplosiva, tematiche decadenti (perversioni sessuali, tossicodipendenza).

Se da un lato è evidente in “Fire of Love” l’influenza della scena di Los Angeles sia precedente (si pensi a “Break on Through” dei Doors, ma soprattutto all’enfasi emotiva, alla teatralità e alla presenza sciamanica che Jeffrey Lee ereditò da Jim Morrison) sia contemporanea (“Los Angeles” degli X, prodotto da Ray Manzarek dei Doors, è un chiaro esempio), dall’altro non è così facile capire come Jeffrey Lee Pierce sia giunto al suo prodotto finale: un ragazzo cresciuto nei sobborghi di Los Angeles che, affascinato dal blues del delta del Mississippi, si mette a suonare punk contaminato.

Prima ancora di entrare in contatto con il punk, un concerto di Bob Marley (per cui valgono gli aggettivi usati in precedenza per Jim Morrison) diede una svolta alla vita di Jeffrey Lee: la passione per il reggae lo porterà a compiere un viaggio in Jamaica per esplorare e conoscere più approfonditamente la musica del luogo, un suono viscerale, autentico, semplice, immediato, “primitivo”.

Al suo ritorno negli Stati Uniti esplode il punk e come molti giovani si identifica subito nella “nuova ondata”; a questo punto l’ispirazione di Pierce inizia a spiccare il volo. Osservando un punk e una new wave che da atteggiamento si stavano trasformando in forma, Jeffrey Lee andò alla ricerca di un genere da stravolgere attraverso l’ideologia punk ma che avesse le stesse caratteristiche di primitività e autenticità del reggae: sotto questo punto di vista, Pierce identificò il blues del delta del Mississippi come il “reggae” degli Stati Uniti d’America.

Il concetto di originalità e naturalezza della musica ricercato dal leader dei Gun Club è applicabile a molti generi, il folk di ogni regione è probabilmente il caso più evidente (si pensi alla musica tribale africana, ai cantautori chansonnier francesi ecc.). Decontestualizzando i musicisti indie rock degli anni ’80, la band che più incarna le caratteristiche ricercate da Pierce sono i Beat Happening di Olympia, Washington: una band che suonava l’equivalente del blues del delta per il rock alternativo per autenticità e immediatezza; un suono semplice, melodico, tribale. Così come i chitarristi di colore del sud improvvisavano pezzi blues con la stessa naturalezza con cui gli schiavi africani cantavano pezzi gospel e i rastafariani jamaicani suonavano reggae, così i Beat Happening suonavano indie, interiorizzando l’atteggiamento caratteristico ed emettendo il loro gemito.

I Beat Happening sono la quintessenza del rock indipendente; la formazione era composta da 3 semplici ragazzi  di una città di provincia: Calvin Johnson, il leader della band, voce principale e frontman, personalità magnetica, una sorta di profeta dell’indie, l’ideologo di fondo e fondatore della K Records, la loro etichetta, fra le più attive negli anni ’80, produttrice di un gran numero di band del nord-ovest degli USA (l’altra era la Sub-Pop di Seattle); gli altri due, Bret Lunsford e Heather Lewis (una ragazza, dettaglio importante se consideriamo che durante gli anni ’80 i Beat Happening erano il gruppo di punta della città che avrebbe originato il fenomeno “Riot Grrrl”) erano il ritratto della timidezza, si contrapponevano in questo modo all’egemone presenza di Johnson, ma era una dialettica costruttiva, in quanto proprio questa contrapposizione amalgamava il tutto tramite l’ideologia comune, fatta di un concetto di straight edge diverso da quello dichiarato dalle band hardcore punk, fatto più di svago “carino” e tradizionalista: fare torte, bere the, passare pomeriggi in casa, una sorta di conservatorismo nostalgico, dichiarato anche attraverso l’abbigliamento e l’estetica in generale.

Nonostante la band sia attiva già dall’82, sia facendo concerti (spesso nei luoghi più improvvisati come marciapiedi, sottoscala, appartamenti di amici) in cui i membri si alternavano indistintamente agli strumenti, sia producendo musicassette, nastri e un primo album nel 1985, l’apice è raggiunto nel 1988 con la registrazione di Jamboree, sempre prodotto dalla K Records (l’album riuscì a sfruttare i canali di distribuzione della Rough Trade per il mercato europeo).

Jamboree è il concentrato dell’ ideologia musicale dei Beat Happening, ovvero una sorta di garage rock scarno, spartano, con una sezione strumentale dimezzata (solo chitarra e batteria accompagnano la voce) e una registrazione di bassa qualità; Johnson e compagni accompagnano l’ascoltatore nella loro realtà naive, fatta di passeggiate nella natura, pic-nic e discorsi assurdi. Una sorta di “Isola che non c’è”, una nuova poetica del fanciullino.”Indian Summer“, una tenera ballata di periferia: le chitarre sono rilassanti e psicotiche allo stesso tempo, la batteria cita la primitività di Maureen Tucker dei Velvet Underground e Johnson declama i suoi sermoni da Peter Pan degli anni ’80; “Bewitched” si sviluppa su un riff tipicamente punk in stile Cramps, è l’iniziazione al suono di Jamboree, voce cavernosa e rock primitivo, impulsivo; “Ask Me” è un pezzo registrato durante un concerto, cantato a cappella (una forma particolarmente apprezzata da Johnson, proprio per le caratteristiche di immediatezza, autenticità ecc.) da Heather Lewis: una semplice melodia accennata che permette di intravedere la vera personalità della batterista/chitarrista, timida e impacciata che durante l’esibizione si trasforma, acquisendo sempre più sicurezza.

La rivoluzione dei Beat Happening fu l’implicito invito rivolto ai fan a fare musica. Dopo aver sentito o visto la band, la sfida consisteva nel “provare a fare di meglio”. Altro particolare importante fu l’aver reso il rock alternativo più accessibile (l’hardcore punk era un genere per ragazzi alienati e arrabbiati) portando, assieme a tanti altri gruppi di college di quel periodo, una nuova sensibilità.

I Beat Happening furono fondamentali nello sviluppo del rock del nord-ovest: influenzarono band successive (Jamboree era uno degli album preferiti di Kurt Cobain), fondarono un’etichetta indipendente di pari importanza alla Sub-Pop, personificarono l’atteggiamento indie in modo pieno e innocente; in altre parole narrarono un mondo in eterna contrapposizione fra adulti (l’industria musicale) e adolescenti (l’arte indipendente).

A.M.

Billboard è una rivista settimanale americana, tra le più attendibili nel pubblicare le classifiche di vendita e ascolto. Considerare l’importanza di un artista in base alle classifiche Billboard può sembrare un criterio piuttosto oggettivo: l’artista x, il più ascoltato dell’anno y è anche il più popolare e le sue idee sono le più diffuse; ergo l’artista x è, musicalmente parlando, fra i più importanti dell’anno y. Questo criterio è tuttavia il più stupido, superficiale e ignorante per giudicare la qualità intrinseca del prodotto.

Per prima cosa le classifiche Billboard non prendono in considerazione i gruppi che hanno scarsa distribuzione, e già qui si ha il primo sbarramento. Le classifiche Billboard prendono in considerazione le radio e i pezzi più trasmessi: anche qui la maggior parte delle band viene ignorata.

La classifica Billboard che secondo i più tratta il rock alternativo si chiama in realtà Modern Rock Tracks, e non distingue fra gruppi indipendenti o dipendenti, altra mancanza dovuta al potere delle major.

Alla fine di ogni anno Billboard diffonde la “Billboard Year-End”, ovvero la classifica degli artisti che più hanno dominato le classifiche durante l’anno. 3 sezioni (Pop/Rock, R&B/Hip-Hop/Soul, Country), 2 microsezioni (singolo e album).

Analizzando la “Billboard Year-End” ci si trova tuttavia di fronte alla realtà: artista popolare non vuol dire artista significativo. Nonostante alcune eccezioni (soprattutto nella sezione “album”, in cui compaiono Jimi Hendrix con “Are you Experienced”, Neil Young con “Harvest” e altri musicisti importanti), la classifica è piena di artisti di dubbia qualità, molti dei quali finiti nel dimenticatoio. Nelle stesse classifiche utilizzate per giudicare alcuni artisti “importanti”, compaiono “musicisti” del calibro di Billy Ray Cyrus (padre e manager di Hannah Montana), svariate colonne sonore (da Mary Poppins a Titanic), raccolte di gruppi che non esistono più (emblematico il 2001, in cui l’album più venduto risulta “1” dei Beatles; che sia quindi l’album più importante del 2001?). Altre riflessioni nascono spontanee sul ’77, universalmente definito “l’anno del punk”: l’album più ascoltato è “Rumors” dei Fleetwood Mac (che poco ha a che vedere con il punk), mentre il singolo più ascoltato è “Tonight’s the night (Gonna be alright)” di Rod Stewart (che nulla ha da spartire con il punk).

La conclusione è la seguente: così come è interessante sapere quale fosse la canzone più ascoltata dell’anno preso in considerazione, così l’informazione è inutile ai fini del giudizio intrinseco e della sua importanza in termini di idee e creatività. Ignorare le classifiche non significa ignorare il contesto; ignorare le classifiche significa non essere pilotati dall’industria musicale. “Redheads Going Wild” ignora le classifiche in quanto è dimostrato che un gruppo musicale con pochi fan, che non gode di ampia distribuzione, che ha a disposizione scarsi mezzi economici, può essere più decisivo dei tanti artisti presenti nelle classifiche di diffusione e vendita. I meriti musicali sono una cosa, la popolarità è un’altra.

A.M.

Mi trovo d’accordo con Pitchfork quando si dice che i Converge rappresentino per la nostra generazione quello che per i ragazzi degli anni’80 erano i Black Flag. Sicuramente dal gruppo californiano il quartetto di Salem, MA, ha tratto molta ispirazione, nella musica e nell’attitudine, facendo proprio il concetto di Do it yourself, estrapolato dalla natura allo stesso tempo implosiva ed esplosiva dei Black Flag, e portato su nuovi livelli. Dall’artwork alle registrazioni, tutto è in mano alla band, che incarna appieno i valori dell’umiltà e del lavoro duro.

Jane Doe“, l’album di cui vorrei parlare oggi, è un perfetto esempio di tutto questo. Prima di farlo però, una premessa: Jane Doe spacca i culi. Ma davvero. È un disco che prende a calci nel culo l’ascoltatore per tre buoni quarti d’ora. Senza pietà. I Converge non sono certo la band più facile da etichettare musicalmente. Diciamo si possono porre tra metalcore e mathcore, ma questo di certo non fa alcuna differenza, per quello che è uno dei dischi in assoluto più validi di questo decennio (e che nel cuore di chi scrive occupa un posto tutto suo). Non è di certo un disco che si apprezza dai singoli o dagli episodi, anzi è totalmente amalgamato e coeso. Ogni episodio segue quello precedente e anticipa quello successivo. Proprio per questo va assolutamente ascoltato nella sua interezza e principalmente “capito”, poiché amare i Converge è molto facile, occorre solamente essere emotivamente predisposti per farlo, condizione necessaria però per qualsiasi esperienza estetico/artistica in generale.

Veniamo al sodo però. “Concubine“, con il suo basso trotterellante e la batteria, apre il disco. Già dai primi secondi si capisce che aria tira, e presto si viene letteralmente investiti da l’urlo atroce di Jacob Bannon, “Dear, I’ll stay gold just to keep these pasts at bay/To keep the loneliest of nights from claiming you“. Non provate nemmeno a cercare di capire ciò che vi viene detto, è impossibile. Le urla disumane di Bannon si amalgano con la musica ad un livello mai visto, fino a formare un inestricabile insieme.

L’album in sé poi, è una specie di giostra emotiva. Attraverso i suoi saliscendi viene rappresentato cosa accade nell’animo umano quando si conclude un importante rapporto affettivo, ed è un perfetto esempio della natura catartica dell’hardcore. La musica si trasforma in una cascata di emozioni, ti svuota, come strizzare una spugna piena d’acqua fino a quando non ce n’è più.

La tragica conclusione di questo rapporto affettivo ha lasciato Bannon disperato e vulnerabile. Dal disco tutto ciò traspare molto bene, perché le emozioni associate a questo stato sono tutte presenti: shock, negazione, perdita e solitudine. Il nadir della sconfitta. Maltrattata e relegata in un angolino buio della stanza però c’è anche la speranza. La speranza che emerge da quella cavalcata che conclude “Jane Doe“, pezzo conclusivo dell’album. È come se tutto il disco tendesse verso questo momento, un immensa scarica di rabbia e adrenalina che arriva fino all’ “I want out” di Bannon, che per questa occasione cambia totalmente timbro e intonazione. Questa è una delle parti dell’album che emozionalmente comunicano di più all’ascoltatore.

Se in pezzi come la magnifica “The broken Vow” e “Bitter and then Some” il dolore più totale si tramuta in musica in una maniera così estrema che mai si è visto nulla di simile, qui tutto cambia e traspare il misero barlume di speranza che caratterizza i momenti più duri della vita di una persona. Insomma come se fossero la rabbia e la disperazione a farci andare avanti.

Menzione particolare meritano i testi. Il songwriting di Bannon è sentito e visceralmente pervaso di emozione allo stato puro, dalle acide e corrosive grida “No love no hope” di “Homewrecker” all’ultima parte di “The broken vow“, “I’ll take my love to the grave“. Fatto particolare è che vengano scritti quasi come poesia, data la particolare attenzione alla metrica e alla posizione delle parole. Quasi un ossimoro se vengono confrontati con il prodotto finale.

Ecco a voi quindi uno dei prodotti più “tipici” di questo decennio. Sicuramente tra i migliori. Viscerale, sperimentale, incazzato.
Enjoy.

E.T.

 

Those nights we had and the trust we lost
The sleep that fled me and the heart I lost
It all reminds me
Just how callous and heartless the true cowards are
And I write this for the loveless
And for the risks we take
I’ll take my love to the grave
As tired and worn it is
I’ll take my love to the grave

Converge, “The Broken Vow”